giovedì 6 agosto 2015

Ricadere per poi rialzarsi

Il testo sotto riportato è interamente estrapolato da "Le pose del tempo" e la sua autrice si chiama Maria Grazia. Personalmente l'ho letto e poi riletto: ho pensato a mia madre ed a "quel qualcosa che aveva alla testa" e l'ha portata via, per sempre. Poi l'ho letto di nuovo, per la terza volta, e tante emozioni ho provato che mi hanno fatto riflettere e condotto in alto, sulle ali dei miei pensieri........


Tramite gli avvenimenti, la vita procede confezionando eventi, facendo vedere che essa è solo tempo indefinibile capace di passare attraverso, quasi per diletto, percorrendo direzioni a noi fino allora sconosciute, senza nemmeno domandarci il permesso di invadere e mettere a soqquadro la nostra esistenza, e tanto meno preoccuparsi per noi se ci va  bene il modo nel quale lo fa.
Sembra una convenzione stipulata a priori sin dai tempi dei tempi, che riguarda il genere vivente, il quale, se pur tristemente è destinato ad arrendersi agli eventi, in particolar modo a quelli  negativi.
Con tutta la buona volontà non mi è possibile dovere  accettare la perdita dell’uomo con cui ho condiviso tutto:  ogni giorno, ogni occasione, ogni possibile felicità, ogni probabile dolore.
Malgrado io voglia accantonare il forte disagio emotivo, facendo sforzi per ricominciare, spesso i pensieri dolorosi remano contro la mia presupposta e  precaria serenità.
La domanda del perché non gli è più possibile vivere la sua vita insieme con la mia si percuote costantemente nella mia testa.
Odio la malattia che l’ha portato via. E’ una di quelle che ti seguono per un pezzo in modo subdolo, quasi in incognito silenziosamente. Tramano oscure intenzioni per invadere e soggiogare sino a consumarti ed infine ucciderti.
Doverci convivere diventa obbligo faticosissimo.
Lui non ha mai voluto accettare questa “cosa”, che divenne la sua definizione personalizzata della malattia, ma pur tuttavia, per molti versi avvertiva forte il senso di responsabilità nei riguardi della nostra vita, alla quale sapeva di dover rinunciare molto presto, a causa delle anomalie sempre più frequenti che non gli permettevano di interagire con i gesti abituali della quotidianità.
“Contro la malattia non si vince, è una battaglia che perdo, e niente potrà riportarmi indietro la salute, e tocca solo andare incontro al peggioramento che è diventato inevitabile come la mia morte”.
Ho convissuto con questo genere di affermazioni, che apparivano inspiegabilmente naturali, e nel frattempo crudelmente insopportabili. Le ho ascoltate mio malgrado, le ho contrastate, le ho combattute, le ho colmate di sane e propositive speranze pur  sapendo di compiere l’ingrato e necessario gesto della menzogna. Combattere e mentire non sono una grande azione, ma qualunque atto diventa utile per contrastare, per scuotere e far riemergere la voglia di vivere che lui aveva ormai accantonato. Ho soltanto combattuto con le armi che avevo sino a quando le forze e il coraggio mi hanno sostenuto, finché la sua piena consapevolezza della fine mi ha portato alla realtà.
La vita non è più la stessa quando il cervello è colpito, perché cambia inaspettatamente, e mai in meglio.
Ho conosciuto aspetti diversi di questo tipo di malattia, i linfomi cerebrali cambiano inaspettatamente la personalità, le sane abitudini diventano ricordi, la logicità insieme alle parole perdono di significato e le singolarità comportamentali diventano  costanti, e la loro frequenza modifica ogni aspetto, e il rigore e la morale si perdono tra il tempo che segna le giornate. L’intervallo che scandisce meno ore o minuti di sano comportamento diventano preziosi da vivere e da ricordare. Sono quelli nei quali il confronto diviene intenso e frettoloso nel frattempo, per il timore di non fare in tempo, e dire  tutto quello che c’è da dire. Non dimenticava di chiedere il mio perdono.  Avvertiva forte il peso di dovermi lasciare sola, e non si perdonava il modo inaccettabile con il quale i suoi comportamenti manifestavano la sua forte inadeguatezza per la malattia.
L’ho vissuta con lui, e l’ho affrontata. Comprendo che  appare eccessivo usare la parola subire, ma io l’ho anche subita la patologia, e  nel peggiore dei modi.
Non ho recriminazioni, ho soltanto il desiderio di esigere il diritto di essere arrabbiata.
Tutto qui. Ergere le mani chiuse strette, e issarle contro la capacità inderogabile che ha la vita di sapere manipolare, nei modi più inappropriati, quel periodo che c’è concesso essere in vita in un modo tremendo e dolorosissimo.
Diventa inevitabile rimanere sconvolti, catapultati in una dimensione che risiede di là dalla comprensione, ma tra folli considerazioni tutte incanalate alla conseguenza più inevitabile.
Quando senti che si avvicina è un momento casuale, perché malgrado sia lì con te il dolore lancinante dell’imminente distacco sai inconsapevolmente che quei dati momenti sei in grado di poter gestire sia per lui, che per te. A un tratto ritrovi lucidità e avverti un silenzio che aleggia come mai avevi sentito. Tieni stretta alla tua la sua mano con l’intenzione ben nascosta di volerlo trattenere lì, mentre i suoi occhi sono uno sguardo colmo di amore infinito tutto per te. Il silenzio comprime la stanza come l’ovatta che contiene un oggetto con il compito di custodirlo.  Il cuore sale in gola e nonostante colpisca forte, sembra inspiegabilmente zittirsi per evitare di disturbare quel particolarissimo momento. Ma è tutto illusorio, perché appena il respiro dell’uomo che hai amato e che amerai per la vita si ferma, tutto si rompe e va in frantumi. Il cuore ricomincia a pulsare, e il sangue confluisce nelle vene provocando trambusti alla mente che riceve chiaro e deciso il segnale dell’evento. Cade il mondo attorno e c’è un silenzio che echeggia,  e tu pensi di essere incomprensibilmente schiacciata. L’aria diventa quasi assente tra i singhiozzi incessanti.
Il dolore è insopportabile.
Rivolgi gli occhi su quel suo ultimo sguardo fatto d’amore.  Lo prendi a piene mani per custodirlo nella memoria, perché sai sin da allora che ne avrai bisogno per alleggerire il gran peso che risiede nel cuore, e per mitigare la sua mancanza.
Ad un tratto avverti forte la sensazione che non c’è più. Il suo corpo appare misteriosamente vuoto, ma segnato dalla malattia. Il volto è privato di qualunque sofferenza e di ogni movenza che ne possa identificare la presenza.
E’ così strana la morte. Ti toglie dalla vita sofferente per dartene una diversa dalle tonalità indecifrabili. L’evento in sè dovrebbe riuscire a dare rassegnazione a te che rimani, proprio perchè pensi che dall’altra parte la persona che ami ha smesso di soffrire, e questo dovrebbe bastare, ma non riesco a spiegarlo al mio cuore.
In pochi attimi la morte giunge ed è straziante.
Il tempo si sussegue ed è inevitabile. Ritrovare  la lucidità diventa necessario e utile per imparare a vivere nella solitudine.

Maria Grazia - 25 aprile 2012